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Scrivo ergo rum

31 luglio 2013

di Valerio Magrelli per la Repubblica

Secondo un antico detto taoista, «dopo averla bevuta, una coppa di vino può portare con sé cento strofe». L’assunto è presto detto: alcol e letteratura costituiscono un connubio tanto antico quanto geograficamente ampio. La loro sacra unione affonda nei millenni, per realizzarsi praticamente in ogni tipo di civiltà.

Ciò che cambia, è soltanto la forma assunta via via dallo spirito (con l’iniziale minuscola, per distinguerlo da quello di Hegel). Birra, distillati e vino, sono così evocati nei luoghi e nelle culture più diverse come preziosi, talvolta indispensabili alleati nell’esercizio della scrittura. Ma già dire “vino” solleva un problema.

Come possiamo infatti definire tale, almeno rispetto alle nostre abitudini, la potentissima salsa che i romani amavano diluire attentamente durante i loro sterminati banchetti? Cosa pensare, poi, delle infinite varietà di acquavite, estratte da tante piante nel corso dei secoli? E quanto alle coppe che circolano vorticosamente nelle quartine composte all’inizio del 1100 dal poeta persiano Omar Khayyam, che cosa avranno davvero contenuto? «Esser, non esser, salvezza, destino, / cielo, inferno e misteri… Ah parolai! / Con tutto il mio studiare io non trovai / che una cosa quaggiù profonda: il vino».

Insomma, evitiamo il rischio di smarrirci nell’immensa foresta delle varietà etilico-letterarie, dalla Scandinavia al Messico, dalla Grecia alla Cina, e riprendiamo il nodo della questione, costituito appunto dal quasi indissolubile legame tra versi, prosa e alcol. Il tema è di recente tornato alla ribalta grazie a due saggi apparsi sul mercato anglosassone e accolti con vivo interesse.

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