Il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è.
Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l’asino dove vuole il padrone.
Vittorio Feltri – “Il Borghese”
Il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è.
Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l’asino dove vuole il padrone.
Vittorio Feltri – “Il Borghese”
Ho visto che molti giornali hanno fatto letteralmente le pulci a tutti i neo ministri, pubblicandone curriculum e idee, a volte evidenziando la dichiarazione fatta a margine di un convegno di anni prima oppure la participazione a tal manifestazione pro/contro qualcosa.
Benissimo! Questo dovrebbe essere il ruolo della stampa, cane da guardia del potere.
Mi sarebbe tuttavia piaciuto se fosse sempre stato così, anche nei decenni passati quando ci hanno propinato ministri senza alcuna qualifica, condannati o indagati per i crimini più vari, professionisti della poltrona e del cambio schieramento.
La donna mi trattenne un momento per il braccio. Forse aveva capito chi ero e cosa facevo lì. Col tono di qualcuno che conferma un sospetto mi disse:
“Lei è uno scrittore, non è vero?“
Non so perché, ma mi sentii come un delinquente colto in flagrante.
“Sì, e lei è una puttana”, dissi.
Le due accuse si erano equilibrate e me ne andai.
Albert Sánchez Piñol – “Congo inferno verde”
Come faccio a non vantarmi del fatto che avevo ragione? E infatti lo faccio.
La cosa bellissima però è che anche Pigi Battista mi dia ragione in pieno. Sembra quasi che abbia letto il mio blog (magari lo fa per davvero).
Non ho e non mai avuto una grande stima per lui, ma devo dargli atto di essere uno dei pochi giornalisti italiani che adesso ha avuto il coraggio di fare autocritica.
Il commento alle elezioni americane comincia con una bella presa di coscienza:
[…] Non era prevedibile una tale concentrazione di sondaggi farlocchi, di previsioni fallaci, di analisi sballate, di certezze finite in frantumi, di ironie controproducenti, di teoremi infondati, di desideri scambiati per realtà. Risultato straordinario di strafalcioni e deduzioni semplicistiche. Si era detto. Meglio: avevano detto. Meglio ancora: avevamo detto, tutti noi dei giornali e dei media.
E continua poi con l’auto “j’accuse”. Un “je m’accuse”, si potrebbe chiamare:
Non ne hanno, non ne abbiamo azzeccata uno, sulle donne, sui neri, sui latinos, sui repubblicani dissidenti, eppure ci si stupisce, come se la realtà avesse fatto un dispetto agli «analisti» — non adeguandosi alle loro ingiunzioni e alle loro previsioni. Analisi. O meglio: tifo. Tifo accecante, almeno stavolta.
Battista è poi d’accordo con me anche riguardo “gli analisti”, quelli che io senza mezzi termini avevo definito “le élite americane e italiane che hanno in comune il fatto di aver perso completamente contatto con la realtà della gente comune”.
Gli «analisti». E cioè, chi sarebbero, che titoli hanno, dove si è formata la loro sicumera: nelle aule universitarie, o nelle cattedre del sentito dire, o in qualche bistrot con un bicchierino come ausilio per la dissertazione chic? E le fonti degli «analisti» dove si trovano? Difficile da dire. Però facile da immaginare che siano persone che frequentano gli stessi ambienti, hanno gli stessi tic, parlano lo stesso linguaggio. E che perciò sono incapaci di captare il linguaggio di chi sta fuori, di chi sta lontano e che dunque vota in modo bizzarro e imprevedibile.
Per una volta: chapeau a Pigi Battista.
«Il sistema dell’ informazione non regge più. I giornalisti che sono rimasti nelle redazioni prima della tempesta sono pagati in maniera insensata rispetto al nuovo mondo. E allo stesso tempo i giovani vengono usati come gregari e sono sotto pagati. Non esiste nessuna solidarietà intergenerazionale nella nostra categoria. A questo si aggiunge che i cittadini non risparmiano più i soldi per comprare i giornali. E noi, perché questo riguarda anche me, non ci siamo fatti trovare attrezzati. È un passaggio lungo e difficile perché tutti i parametri si sono indeboliti».
Enrico Mentana – Lettera 43
NB: Io sono perfettamente d’accordo.
Ho scoperto che su Twitter, grazie soprattutto alla brava giornalista Marion Sarah Tuggey, spopola il tag #Rampinomics, dove in pratica si sputtanano tutte le volte che il corrispondente di Repubblica Federico Rampini si applica nella nuova arte del copia-incolla-traduci.
Come scrive Stefano Filippi sul Giornale:
Marion Sarah Tuggey ha sotto mano le stesse fonti di Rampini, cioè giornali e siti americani. E ha colto quelle che all’inizio sembravano suggestioni, analogie, imbeccate, e col tempo si sono rivelate riproduzioni. Sul suo profilo twitter @masaraht ha cominciato a segnalare l’inaspettato fenomeno con precisione filologica: citazione dell’originale con il link della fonte, e citazione della copia, cioè il sito internet di Repubblica con la firma di Rampini.
Io nel mio piccolo avevo già sputtanato questo orribile vizio dei giornalisti italiani in un post del dicembre 2010.
Dubitare è l’unica forma di autodifesa. Per se stessi e per servire davvero il lettore.
A proposito di quello che dicevo un po’ di tempo fa… e che a quanto pare non sono l’unico a pensare:
[…] Anche in questo caso la storia è assai misera. E non ha nulla della grandiosità tragica delle mafie. Le storie dei giornalisti italiani sono storie di Inpgi e Casagit, di pensioni che stanno per maturare, di piccoli privilegi di persone stanche e ciniche, che in gioventù hanno sognato il mestiere più gratificante del mondo e oggi attendono il prossimo invito al talk tv. Incrociate e riconosciute per strada, ma sempre più disintermediate, come si dice ora.
Di qui chiusure, frustrazioni, disperate difese di posizioni. E si fottano i giovani che sono dietro. Che magari sono pure bravi, ma non sanno e non possono aprire la guerra della rottamazione nelle redazioni che sono dei soviet, con direttori che restano imbalsamati per decenni, tra copie che crollano e colophon che crescono a dismisura per tenere a bada gli impazienti. Niente mafia, insomma, anche in questo caso. Il capitolo finale della storia dei giornali italiani è solo una piccola vicenda di privilegi, bollini e umanissime miserie.
Claudio Velardi per Il Foglio
L’omicidio di Meredith Kercher
31 marzo 2015Si è concluso definitivamente (terzo grado di giudizio) il processo per l’omicidio di Meredith Kercher e sono stati assolti i due imputati Raffaele Sollecito e Amanda Knox. E su varia stampa, nei commenti di giornalisti, opinionisti e (non ultimo) dei parenti della vittima, c’è stato tutto un gran strepitare di “assenza di giustizia”, di “giustizia che fallisce“, di “vergogna per la giustizia italiana”, di “processo che non trova colpevoli”.
Prima di tutto, come fa ottimamente notare Luca Sofri sul suo blog, un processo non ha il dovere di trovare i colpevoli di un reato, ma di valutare se le persone accusate di quel reato dagli inquirenti siano o non siano colpevoli, che è una cosa ben diversa. Per dirla meglio: scopo di un processo “non è capire chi abbia compiuto un reato, ma decidere se chi ne è accusato lo abbia compiuto o no” (cit. Luca Sofri).
In generale poi, non ho mai capito bene perché se un giudice condanna gli imputati “vince la giustizia”, ma se invece li assolve “è una sconfitta per la giustizia”. In base a cosa? “In base alla quantità di bava che si forma alla bocca”, mi ha risposto ironicamente un amico. E mi sa che ha ragione però. Perché certe volte sembra che le parti in causa siano soddisfatte solo quando viene messo alla gogna e condannato qualcuno, indipendentemente dal fatto che sia colpevole o innocente.
Però un processo servirebbe anche a quello: ad assolvere qualcuno dalle accuse se queste sono infondate. E si chiama “giustizia” anche quella. Anzi, forse lo è ancora di più.
Tag:Amanda Knox, commenti, giornalisti, giudici, giustizia, Meredith Kercher, omicidio, processo, Raffaele Sollecito, stampa, vendetta
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