Ieri ho ricevuto una pessima notizia.
Se n’è andato Noel “Coxy”, lo storico barista del Celt, uno dei più bei pub di Dublino, cioè del mondo.
Sono stato in una mini crociera, piuttosto tipica e famosa fra gli svedesi. Si tratta di un viaggio di 22 ore che parte la sera alle 18 da Stoccolma, attraversa le centinaia di bellissime isolette ad est della capitale svedese e arriva a Mariehamn, capoluogo delle Isole Åland in Finlandia, per poi tornare alla base alle 16 del giorno dopo.
Il biglietto costa molto poco (i prezzi partono da qualche decina di euro) e comprende il viaggio, una cuccetta e la cena self service dove puoi mangiare e bere quanto ti pare nell’ora e mezza che hai a disposizione. All’interno della nave ci sono sale per convegni (molte aziende organizzano qui i loro meeting perché è più economico che pagare hotel e ristorante ai suoi dipendenti); un’area benessere con piscina, idromassaggio e sole artificiale; vari bar; ristoranti; terrazzini dove godersi un drink all’aperto; un piccolo casinò; sale da ballo; e soprattutto un negozio duty-free come negli aeroporti dove, quando ci si trova in acque internazionali, è possibile comprare alcool a prezzi molto scontati rispetto alla terraferma. Perché questo è in realtà il core business del viaggio: sopra queste navi si ubriacano tutti come le merde.
“Oggi ho imparato una cosa importante: se ne compri una, allora fai prima a comprarne direttamente due”
Un anziano ubriacone all’ingresso del Systembolaget, probabilmente riferendosi alla birra.
Moriva il 9 marzo di vent’anni fa uno dei più grandi scrittori del ‘900.
Ecco il problema di chi beve, pensai, versandomi da bere. Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare. Se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare. Se non succede nulla si beve per fare succedere qualcosa.
Henry Charles Bukowski
di Valerio Magrelli per la Repubblica
Secondo un antico detto taoista, «dopo averla bevuta, una coppa di vino può portare con sé cento strofe». L’assunto è presto detto: alcol e letteratura costituiscono un connubio tanto antico quanto geograficamente ampio. La loro sacra unione affonda nei millenni, per realizzarsi praticamente in ogni tipo di civiltà.
Ciò che cambia, è soltanto la forma assunta via via dallo spirito (con l’iniziale minuscola, per distinguerlo da quello di Hegel). Birra, distillati e vino, sono così evocati nei luoghi e nelle culture più diverse come preziosi, talvolta indispensabili alleati nell’esercizio della scrittura. Ma già dire “vino” solleva un problema.
Come possiamo infatti definire tale, almeno rispetto alle nostre abitudini, la potentissima salsa che i romani amavano diluire attentamente durante i loro sterminati banchetti? Cosa pensare, poi, delle infinite varietà di acquavite, estratte da tante piante nel corso dei secoli? E quanto alle coppe che circolano vorticosamente nelle quartine composte all’inizio del 1100 dal poeta persiano Omar Khayyam, che cosa avranno davvero contenuto? «Esser, non esser, salvezza, destino, / cielo, inferno e misteri… Ah parolai! / Con tutto il mio studiare io non trovai / che una cosa quaggiù profonda: il vino».
Insomma, evitiamo il rischio di smarrirci nell’immensa foresta delle varietà etilico-letterarie, dalla Scandinavia al Messico, dalla Grecia alla Cina, e riprendiamo il nodo della questione, costituito appunto dal quasi indissolubile legame tra versi, prosa e alcol. Il tema è di recente tornato alla ribalta grazie a due saggi apparsi sul mercato anglosassone e accolti con vivo interesse.
L’Economist fa un calcolo molto interessante: quante ore di lavoro bisogna accumulare per essere in grado di pagarsi mezzo litro di birra?
E mette a confronto 150 Paesi del mondo. Il posto dove bisogna faticare di più per andare al pub è l’India, dive bisognare lavorare quasi un’ora.
Va meglio in Italia, dove bastano 12/13 minuti al giorno per pagarsi una birra media.
Anche se il prezzo medio stabilito dal giornale britannico desta in me qualche perplessità.