Circa un mese e mezzo fa (quasi due a dire la verità. Lo so, sto trascurando il blog ultimamente) c’è stata una rovente polemica fra il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini e il “mondo della scuola”/”mondo del lavoro”.
Il motivo della contestazione da parte dei due mondi, risiede nelle seguenti dichiarazioni del ministro rilasciate in seguito a una intervista:
L’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica.
L’istruzione italiana è però quasi sempre il motivo per il quale gli studenti italiani trapiantati all’estero eccellono rispetto ai propri coetanei stranieri.
Certamente non dobbiamo rinnegare le radici classiche del sistema italiano, è però necessario stare al passo coi tempi e colmare la lacuna che ci divide dai Paesi competitivi. Il mercato richiede la formazione di personale flessibile e un’impostazione troppo teorica del sistema italiano rischia di essere d’intralcio.
A proposito della flessibilità: tale concetto viene in Italia considerato equivalente a quello di precariato. Si può dunque affermare che la flessibilità non sia sinonimo di malessere?
Sì. Flessibilità deve voler dire dinamismo e mobilità del lavoro e delle persone, anche se spesso viene tristemente associato alla precarietà. Con le riforme vogliamo introdurre una flessibilità virtuosa sia sociale che professionale.
In seguito alle polemiche il ministro ha smentito e precisato alcune dichiarazioni e l’intervista alla fine è stata perfino cancellata dall’Huffington Post (e qui stendo un velo davvero pietoso, sulla presunta libertà editoriale e giornalistica di un quotidiano online che cancella un’intervista su – presumo – spinta del ministero…). L’accusa è più o meno quella che, con la scusa di riformare il sistema scolastico, il Governo voglia far accettare agli italiani la precarietà lavorativa.
Arrivando al punto: sarò controcorrente, ma secondo me il ministro ha ragione.
Vivendo all’estero, e precisamente in Svezia, ho constatato come qui il sistema “scolastico” sia radicalmente diverso che in Italia, direi quasi opposto. Qui, esattamente come dice il ministro Giannini, si predilige un’istruzione basata sul “saper fare”, sulla pratica. Gli studenti già dagli anni della scuola superiore iniziano a frequentare “stage formativi”, a fare lavori estivi, ad entrare in contatto con le aziende e col “mercato” (mio Dio che brutta parola che ho usato. Me ne vergogno).
Questo comporta che l’inserimento nel mondo del lavoro avviene praticamente in maniera diretta una volta conclusi gli studi, spesso anche prima.
Inoltre qui esiste sul serio la cultura della “flessibilità”, che come dice il ministro è cosa ben diversa dal “precariato”. Se uno svedese perde il lavoro, non si strappa i pochi capelli biondi che si trova in testa, ma sfrutta i mesi di cassa integrazione per trovarne un altro (e a meno che non sia schizzinoso, un altro lavoro lo trova sempre nel giro di poco).
L’altra faccia della medaglia è però che gli svedesi sono ignoranti come delle capre. Hanno una carenza assoluta riguardo le materie classiche (storia, filosofia, letteratura su tutti, in geografia si salvano perché se non altro viaggiano molto).
Vorrei quindi questo dalla scuola italiana? Più lavoro e più ignoranza? No.
In realtà penso che il sistema migliore sarebbe un sistema ibrido. Uno dove magari si sacrifica qualche lezione dedicata a Leopardi e Cicerone per favorire la conoscenza e l’ingresso del giovane nel mondo del lavoro. In modo da non creare delle capre ignoranti in catena di montaggio, ma nemmeno dei coltissimi uomini incapaci di sapersi destreggiare in azienda.
Che poi è esattamente quello che ha detto il ministro Giannini.
Chiaramente questa visione idilliaca del sistema scolastico si deve poi scontrare con la dura realtà prettamente italiana. Una realtà dove le aziende prendono gli stagisti per avere mano d’opera gratis per qualche mese, e non realmente per formare un giovane da inserire più avanti nelle proprie fila. Una realtà dove se prendi un 18enne, lo togli dalla scuola due mesi per fargli fare uno stage in una multinazionale, questi non capisce e non sfrutta l’opportunità grandissima che si ritrova ad avere, ma è contento di farsi due mesi di vacanza lontano dai libri (e fidatevi che io ne so qualcosa, su entrambi gli esempi).
Per questo, alla fin fine, la prima riforma che bisognerebbe davvero attuare in Italia è quella culturale. A partire anche da chi protesta sempre appena si prova a cambiare qualcosa.
PS- Mi piacerebbe sapere, magari con un commento, se c’è davvero qualcuno che ha letto tutto questo mio sproloquio.
Tag: contestazione, disoccupazione, intervista, Istruzione, lavoro, precariato, riforma, scuola, Stage, Stefania Giannini, Svezia, università
30 giugno 2016 alle 10:31 |
ciao Valerio
ho letto tutto, e fino in fondo! Il tema mi interessa molto, anche perché negli ultimi mesi mi sono trovato a insegnare, assaggiando un poco della scuola pubblica italiana. Credo dovremmo prendere le parole del ministro e calarle nel contesto italiano per come è ora, e non per come dovrebbe essere, con la premessa che quelle parole non è la prima volta che si sentono, e il tema torna ciclicamente. Riformare i programmi didattici, poiché questo è il punto, è assai delicato.
Forse hai ragione, nella teoria, ma il contesto italiano non offre garanzie: la politica si cura delle esigenze del mercato più che di quelle dei cittadini. Se guardiamo al lavoro, ciò è evidente nello smantellamento dei contratti di categoria, dei diritti dei lavoratori, contribuendo a dare al mercato quel che chiede: lavoratori facili da prendere e da lasciare, senza difese sindacali, senza tutele o diritti. Questa è, con buona evidenza, il percorso intrapreso dall’Italia, La flessibilità è un’esigenza del mercato neoliberista – c’era il capitalismo anche quando i diritti, i sindacati, i contratti, esistevano.
Se questa è l’idea di futuro che hanno i nostri dirigenti, allora forse è meglio salvare il salvabile, anche se magari odora un po’ troppo di naftalina, di “passato”.
Adesso veniamo alle competenze pratiche che gli studenti dovrebbero avere, e ragioniamo di chi stiamo parlando. Nella scuola media abbiamo ragazzi di ogni estrazione sociale, economica, etnica, tutti insieme: a loro si insegnano le basi della matematica, della grammatica, della storia, delle scienze. Il minimo per essere un individuo vagamente consapevole del mondo in cui vive, il minimo – bada – per essere utile al mercato, a quello italiano almeno, visto che non siamo ancora in Cina servono persone sufficientemente alfabetizzate. I ragazzi meno dotati, o semplicemente quelli che non studiano, vengono orientati su programmi di scuola-lavoro che servono a fornire loro insegnamenti minimi di meccanica, falegnameria, idraulica, a seconda del progetto attivo. Tali progetti – che aiutano il ragazzo a non sentirsi escluso, a restare lontano dalla strada, a trovare una propria identità – vivono di soldi regionali o provinciali, quindi non sono soldi della scuola. In tal senso l’alternanza scuola-lavoro esiste già, ma il ministero non caccia un soldo. Perché?
Si passa poi alla scuola superiore, dove i più dotati (che sono poi quelli che hanno ricevuto più stimoli a casa, figli di famiglie istruite, o quelli che pur provenendo da un basso livello sociale hanno trovato un senso nello studio) sceglieranno tra scuole teoriche: i licei classico e scientifico, e variamente “pratiche”: ITIS e istituti professionali (17 indirizzi in totale!). Un perito chimico lo definiresti un “teorico”? Sì e no, deve studiare sui libri ma i programmi prevedono molte ore di laboratorio. Un perito informatico? Un diplomato all’alberghiero? Esistono già scuole professionalizzanti. E gli studenti che escono da queste scuole lavorano, certo non devono essere i peggiori studenti del loro corso. Alcuni di questi percorsi offrono anche adeguate cognizioni “classiche”.
Poi ci sono i licei, oggi ben sei. Quelli sono variamente teorici, il liceo coreutico, ad esempio, offre molte ore di laboratorio. Il liceo scientifico nemmeno poche, anche se molto dipende dalle risorse disponibili. Il liceo classico è totalmente teorico. Ma è normale che esistano scuole teoriche, in parte o del tutto, e pratiche, in parte o del tutto. L’ibrido di cui parli, in sostanza, c’è già. Quello che serve sono i soldi: senza computer decenti, senza programmi aggiornati, come imparo a programmare? o a fare disegno industriale? Senza laboratori di chimica forniti di tutti i reagenti, come faccio a imparare? Le parole del ministro cadono dal pero: la scuola che lei dice, c’è già, solo che non la finanzia. D’altronde la scuola italiana non è affatto finanziata: se tu vedessi lo stato dell’edilizia scolastica, la penuria di materiali … una volta abbiamo fatto partecipare i ragazzi a un concorso, in palio c’era la fornitura per un anno di carta igienica. Non è una battuta, la scuola italiana versa nell’indigenza e se funziona male è perché ha pochi soldi. Invece di dare 500 euro a ogni insegnante per comprarsi il tablet, il ministero dovrebbe comprare i gessi. Sì, i gessi, perché la lavagna elettronica c’è solo a Torino, ma nei paesini non c’è. Non sono italiani i ragazzi che fanno le medie in provincia? sai quante sono le scuole dislocate nei piccoli comuni? Anche superiori, s’intende. Il registro elettronico, strumento assai utile, lo devi usare a casa copiando da uno cartaceo che ti sei fatto tu. Motivo? Non ci sono computer nelle classi. Il ministero fa leggi utili per la scuola di Startrek ma che si applicano a quella dei Flintstones.
Per concludere, dopo questo immane pippone, posso dire che fare ore di “stages” in azienda può essere sensato nella teoria, come lo sono molte cose realizzate negli anni, ma come si andranno a declinare nel concreto? E uno che studia greco e latino, in che azienda lo mandi? Tutto andrebbe ponderato, modulato adeguatamente, senza proclami ideologici sull’eccesso di “classicità”.
La tua idea credo sia figlia di un’esperienza, la tua, che ti ha fatto conoscere solo certe scuole (hai fatto il liceo?) e un certo tipo di formazione, quella umanistica, sicuramente poco utile al mercato. Ma non tutta la scuola è così.
La scuola ha attraversato gli scossoni del secondo Novecento restando immutata, è cambiato il mondo ma lei usa sempre la stessa matrice. E credo sia un bene: la scuola non deve curarsi delle mode politiche, delle correnti ideologiche, dei bisogni del mercato. Deve offrire la garanzia di un insegnamento libero dalle parole d’ordine dell’epoca in cui si trova, adeguando gli strumenti ma non i fini. Senza parole d’ordine, la scuola è libera e può contribuire a formare uomini liberi.
Larga foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia.
Matteo
30 giugno 2016 alle 15:12 |
Rispetto profondamente il tuo punto di vista. E sì, ho fatto il liceo scientifico. E se è vero che la mia proposta (come io stesso ho sottolineato per primo) si applica più nella teoria che nella pratica, è anche vero che pure quello che dici tu si applica più nella teoria nella pratica. Forse perché mancano soldi, forse perché manca personale adeguato, forse perché manca la volontà… Non lo so.
Dici che di fatto la scuola ibrida esiste già? E’ vero per molte scuole professionali (chi fa l’Alberghiero, per esempio, va a lavorare nei ristoranti d’estate), ma assolutamente inesistente per i licei. Io al liceo avevo un indirizzo sperimentale, in cui teoricamente avrei dovuto studiare informatica… Inutile dirti che i laboratori dei licei, tranne alcuni virtuosi casi, sono inutili in quanto non funzionano! Però l’interrogazione su Manzoni la professoressa la sa fare benissimo. Forse il problema è anche che il personale è stato formato con un sistema “vecchio”, troppo e solamente teorico.
Il liceo Coreutico non sapevo nemmeno esistesse. E francamente mi chiedo a cosa serva se già esisteva il Conservatorio! Mi sono sempre chiesto per quale motivo inoltre esistano il liceo Artistico e l’Istituto d’Arte. Non si potrebbero fondere in uno solo?
E’ vero, alla scuola italiana mancano i finanziamenti (e fidati che anche a Pescara le scuole erano fatiscenti… cavolo se lo erano!). Certamente mancano alcune strutture e sovrastrutture di base. Ma concepire una scuola sul modello dell’Alberghiero, per dire, dove lo studente si confronta sul piano pratico col mondo del lavoro, per me deve essere una necessità.
Poi, mi domandi giustamente, dove mandare quelli del Liceo? Boh, si potrebbero mandare a fare corsi relativi alle Human Resources, oppure mandarli a lavorare in un’università accanto a un professore o un associato per l’estate. La soluzione si troverebbe per tutto, questo sarebbe l’ultimo dei problemi.
Cordiali!!!
30 giugno 2016 alle 17:56 |
CIao Valerio,
Letto tutto.
CHiudiamo le scuole! Diceva Papini…
11 luglio 2016 alle 08:44 |
Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna
5 luglio 2017 alle 18:43 |
[…] – ma questo è un pensiero personale che ho già espresso – in Italia ci lamentiamo sempre che i giovani non sono preparati ad affrontare il mondo del […]