di Erik Toselli – pubblicato su Il NordOvest del 16 gennaio 2013
Aveva ereditato, con la scomparsa di Valletta, un’azienda che contendeva alla Volkswagen il primato di vendite in Europa. Ha lasciato, 10 anni or sono, un gruppo sull’orlo del fallimento, ampiamente distaccato dal costruttore tedesco e superato anche da francesi e americani. Eppure Gianni Agnelli – “l’Avvocato”, per il popolo adorante che si mise in fila al Lingotto per rendergli l’ultimo saluto – venne osannato in ogni modo (purché servile) dai media italiani.
Si sprecarono i ricordi del “grande imprenditore italiano”, del “principale industriale”, dell’uomo che aveva portato la Fiat e l’Italia sulla grande scena internazionale, dell’impareggiabile uomo d’azienda con l’immensa conoscenza automobilistica. Mentre sulla stampa internazionale i commenti erano improntati soprattutto sul suo ruolo da bonvivant, da Vip, da personaggio del jet set. Perché all’estero non avevano l’obbligo di inventarsi un Agnelli uomo d’azienda quando, di fatto, non lo era mai stato.
Ma come potevano, i media italiani, soffermarsi sulle innumerevoli avventure amorose dell’Avvocato? Le grandi attrici italiane ed internazionali venivano condotte da lui nel silenzio compiacente dell’informazione. Perché anche negli anni in cui “il privato era politico”, per il Vip il privato doveva restare privato. Si mormorava ma non si scriveva. E poi chi avrebbe dovuto rivelare questi segreti di alcova? I giornalisti che, in perfetto stile indipendente ed autonomo, avevano adottato gli stessi atteggiamenti dell’Avvocato, a partire dall’orologio portato sopra il polsino indossando orridi scarponcini gialli?
Dunque la morte venne inevitabilmente accompagnata dalla rimozione degli errori e degli orrori. Tutti in fila, per ore e ore, per piangere il “Viceré a Torino“, dal titolo del libro di Angiolo Silvio Ori del 1969. Dimenticando, o rimuovendo per servilismo, la fine degli stabilimenti del Lingotto, di Chivasso, di Rivalta. Rimuovendo le menzogne continue: “I nuovi stabilimenti del Sud? Sono aggiuntivi, non sostitutivi”, rispetto a quelli piemontesi. Così aggiuntivi da portare alla scomparsa di fabbriche storiche nel torinese ed alla distruzione di decine di migliaia di posti di lavoro. Anche a Mirafiori, ridotta ai minimi termini dopo essere stata un simbolo mondiale della produzione automobilistica. Al Sud, però, arrivavano i soldi pubblici per costruire nuovi stabilimenti. E poteva, l’Avvocato, rinunciare al denaro regalato dagli italiani? Ovviamente no.
Ma non era fine ricordarlo in quell’occasione. Così come era meglio glissare sullo scontro tra Cesare Romiti e Vittorio Ghidella, uno dei momenti cruciali della storia della Fiat. Con Agnelli schierato a fianco di Romiti, che voleva un gruppo Fiat più volto alla finanza e meno all’industria, contro Ghidella che era stato chiamato proprio per rilanciare il settore auto, ci stava riuscendo e avrebbe voluto proseguire.
E la Fiat di Agnelli-Romiti poté così tranquillamente imboccare la strada del declino. Sino ad arrivare al tentativo, fallito, di cedere l’azienda alla Gm. D’altronde alla Famiglia non interessava più l’auto. E interessava ancor meno la sorte dei lavoratori. Le belle case Fiat costruite tra le due guerre avevano lasciato spazio alle orrende costruzioni degli Anni 60, destinate dai palazzinari ad ospitare le legioni di immigrati in arrivo dal Sud. Anche questa era una dimostrazione di quale fosse realmente l’interesse dell’Avvocato per la Città.
D’altronde, quando si era lanciato nell’investimento per Palazzo Grassi, a Venezia, nell’83, affidando la ristrutturazione a Gae Aulenti, qualche impavido giornalista aveva provato a chiedere perché un simile intervento a favore della cultura venisse realizzato nella Serenissima e non a Torino. Ricevendo una risposta esplicita: “Lei esporrebbe le opere d’arte nella sua cucina?”. Torino era la cucina, e l’Avvocato non era neppure un gourmand.
In compenso considerava la città ed i suoi abitanti come una proprietà personale. Decideva le nomine pubbliche, era informato su ogni assunzione e promozione in qualsiasi settore potesse avere un minimo di interesse per lui e la Fiat, sceglieva sindaci e assessori, determinava le scelte comunali relative ai lavori pubblici (dal metrò all’espansione urbanistica). Torino era roba sua. Qualcuno osava contrastarlo? Sì. Inizialmente i nobili sabaudi in disarmo che osteggiavano questo parvenu. Gioanin lamiera, lo definivano. E solo grazie al matrimonio con la nobildonna Caracciolo poté essere ammesso al Circolo del Whist. Ma i nobili contavano ogni giorno di meno. E il loro fastidio da sangue blu non rappresentava certo un ostacolo.
Rappresentato invece da un brillante emergente, quell’Enrico Salza che, per anni, si oppose realmente allo strapotere dell’Avvocato. Con stile subalpino, senza strepiti, ma costruendo progressivamente una sorta di contropotere che spaziava dal San Paolo alla Camera di Commercio, passando per l’Università. Tra battaglie perse, da Salza, e sorprendenti ritorni in campo con accresciuto potere. Per ritrovarsi insieme, ovviamente, a festeggiare l’assegnazione a Torino delle Olimpiadi invernali del 2006. L’ultimo regalo di Gianni Agnelli a Torino? Non l’ultimo, ma l’unico.
Tag: Avvocato, controstoria, Enrico Salza, Fiat, Gianni Agnelli, Lingotto, Romiti, segreti, Torino
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